Linee guida settore penale U.N.C.M.

L’attività congressuale del Settore Penale dell’U.N.C.M. si è articolata muovendo dall’esame dei contributi scritti, fatti pervenire da alcune Camere Minorili territoriali (Cosenza, Ferrara, L’Aquila, Milano, Nocera Inferiore, Reggio Calabria, Salerno, Sassari e Taranto) e dal conseguente confronto tra tutti i rappresentanti delle Camere Minorili territoriali, presenti all’incontro.

I temi congressuali, sui quali si è inteso orientare l’esame e l’approfondimento, sono stati:

  1. Messa alla prova, trattamento e recidiva
  2. Trattamento dei minori stranieri, autori di reato

In merito al primo tema individuato (Messa alla prova, trattamento e recidiva) sono stati posti due distinti interrogativi, in rapporto ai quali è stato possibile raccogliere il seguente orientamento:

1° QUESITO: Siete favorevoli ad apportare correttivi all’attuale disciplina della M.A.P.? E se sì, quali?

  1. Risulta prevalere l’orientamento comune secondo il quale non si avverte assolutamente la necessità di prevedere modifiche normative tali che comportino un radicale mutamento dell’attuale impianto su cui si fonda L’istituto della M.A.P., fatta eccezione per un’unica posizione, del tutto minoritaria ed isolata, che ritiene di dover escludere la M.A.P. in relazione ai reati più gravi (ad esempio in ipotesi di omicidio).
  2. Si concorda, tuttavia, sull’opportunità di prevedere espressamente, sin dalla fase iniziale di ideazione/elaborazione del progetto di M.A.P. che in sede di verifica finale del medesimo progetto, l’adozione di criteri guida per la definizione dei relativi progetti.
  3. Da parte della C.M. di Milano è stata opportunamente segnalata l’esistenza delle Linee guida o griglie di riferimento (elaborate per il territorio milanese dal Gruppo di lavoro del T.M. di Milano, consultabili sul n. 5/2012 della Rivista Cassazione Penale, nonché sul sito ufficiale dell’A.I.M.M.F.), dall’esame delle quali si evince l’utilità pratica di definire dei progetti che indirizzino l’operato dei servizi sociali e che, al contempo, garantiscano una maggiore condivisione di impostazione e, quindi, una maggiore comprensione (e assunzione di responsabilità circa le proprie azioni) da parte di tutti i soggetti coinvolti nel processo (imputato, suoi familiari, difensore, operatori dei servizi, giudici e pubblico ministero).
  4. Si ritiene, pertanto, fondamentale che l’avvocato del minore partecipi a tavoli di lavoro tecnici con psicologi, assistenti sociali ed altre figure specialistiche per contribuire concretamente all’attuazione della M.A.P. in relazione non solo alle attività e alle scelte processuali, ma anche al giusto approccio informativo che l’avvocato deve avere con il minore autore di reato e con la sua famiglia.
  5. E’ stato rilevato, inoltre, che risulta non comprensibile come possa sostenersi – logicamente prima ancora che dal punto di vista della mera tecnica normativa – l’esclusione della voce del minore, espressa per il tramite anche del/i proprio/i legale/i, dalla fase di stesura materiale del progetto da attuarsi per giungere ad una positiva conclusione del periodo di messa alla prova.
  6. Si rimarca, in ogni caso, la correlata necessità di promuovere un’adeguata formazione e specializzazione dell’avvocato del minore, atteso l’apporto fondamentale che il legale può avere non solo nel promuovere ed accrescere la consapevolezza del percorso educativo e la capacità di elaborare il comportamento antisociale da parte del minore, ma anche nello stimolare il supporto relazionale ed affettivo dell’ambiente familiare (ove possibile), quale contributo per un concreto ed efficace percorso riabilitativo ed educativo del minore.
  7. Una peculiare attenzione va, infine, riservata al DDL 925 (“Delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”), attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato, che introduce anche per gli imputati avanti il Tribunale Ordinario l’istituto della messa alla prova, benché con caratteristiche processuali e di sostanza sensibilmente diverse (e riduttive) rispetto alla messa alla prova del processo penale minorile. Ed a tal proposito va rilevato che: a) siffatta innovazione normativa per i maggiorenni va senza dubbio salutata positivamente, ma deve essere attentamente considerato (e contrastato) il rischio di riflessi negativi o eventuali passi indietro in ambito minorile; b) appare un interessante suggerimento, al fine di migliorare la disciplina minorile con riguardo al computo del periodo di messa alla prova nei casi di esito negativo della prova e, quindi, di revoca della stessa con conseguente condanna, che si preveda – con norma espressa – che il giudicante (in fase di quantificazione della pena in sentenza) tenga conto della durata delle limitazioni e del comportamento del minorenne durante il trascorso periodo di messa alla prova nel determinare la pena detentiva da irrogare, pur non ritenendo adeguato introdurre per i minorenni l’automatismo proposto per il nuovo art. 657 bis c.p.p. dal DDL 925 (“In caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un periodo corrispondente a quello della prova eseguita. Ai fini della detrazione, tre giorni di prova sono equiparati a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a 250 euro di multa o di ammenda”).

2° QUESITO: E’ stato possibile verificare nella vostra esperienza locale una diminuzione della recidivanza in ipotesi di accesso alla M.A.P.? E se sì, mediante l’utilizzo di quale forma progettuale e/o trattamentale?

  1. Non esistono elementi sufficienti per fornire una risposta alla prima parte del quesito su basi scientificamente inconfutabili, in quanto i dati sono parziali e limitati alle singole situazioni locali, essendo totalmente carente a livello nazionale un’attività scientifica di raccolta dati in tal senso. E’, tuttavia, possibile una lettura approssimativa ed empirica dei dati forniti sulla base delle esperienze soggettive, dall’esame delle quali emerge che i ragazzi che hanno condotto a termine positivamente il progetto (o i progetti) di messa alla prova – generalmente – non ripropongono condotte delittuose, ma non è stato possibile individuare da parte di nessuno le oggettive “variabili di successo” dei singoli progetti di messa alla prova rispetto al fenomeno della non recidivanza.
  2. Un dato empirico comune risulta essere, tuttavia, quello che le ipotesi di non recidivanza sono state prevalentemente riscontrate, nelle diverse esperienze locali, in rapporto a progetti di M.A.P. che hanno previsto l’inserimento del minore in particolari forme progettuali, che contemplavano le attività culturali, ricreative e sportive, nonché quelle di istruzione e formazione, coniugando l’attività didattica con lo svolgimento di attività di volontariato mediante l’ausilio delle varie associazioni esistenti sul territorio.
  3. Una sensibile riduzione della recidivanza è stata, inoltre, riscontrata nelle ipotesi di utilizzo di progetti che includono percorsi formativi volti al conseguimento di qualifiche professionali con attività di tirocinio retribuito presso aziende: in tali casi è stato appurato che il minore matura la convinzione, più che in altre tipologie di trattamento, che le istituzioni gli stiano dando una concreta opportunità per migliorare la propria vita, consentendogli di percepire concretamente la M.A.P. come una risorsa educativa e non come una sanzione.
  4. E’ stato concordemente evidenziato che i risultati “positivi” del progetto di M.A.P. sono per lo più riconducibili al dato fattuale di aver effettivamente consentito al minore di poter riscontrare in sé (con nuova, diversa o maggiore presa di coscienza) le proprie inclinazioni naturali e le proprie capacità attitudinali, così favorendo in lui la consapevolezza dell’essere parte attiva di una collettività e della possibilità di poter dare un proprio contributo nel prendersi cura dell’altro mediante l’abbandono di una visione negativa del proprio essere.

Anche in relazione al secondo tema individuato (Trattamento dei minori stranieri, autori di reato) sono stati posti due distinti interrogativi, in rapporto ai quali è stato possibile raccogliere il seguente orientamento:

1° QUESITO: Sulla base della vostra esperienza locale è emersa la sussistenza di una diversificazione di trattamento tra minorenni stranieri e minorenni italiani, autori di reato? E se sì, in quali casi?

  1. Sulla base delle diverse esperienze segnalate attraverso i contributi scritti pervenuti, è stato possibile appurare che sussistono effettivamente delle diversificazioni di trattamento, soprattutto nella fase di inserimento del minore straniero in un progetto di M.A.P., diversificazioni che discendono dalla situazione personale del minore straniero rispetto al minore italiano, autore di reato. Il minore straniero – come dai più evidenziato – vive una situazione naturale di discrimine, in quanto sono differenti le stesse condizioni di vita dei minori migranti (quali: relazioni familiari, culturali, individuali, la mancanza di un domicilio stabile, ecc.) rispetto ai minori italiani, al punto che ne consegue – di solito – l’oggettiva impossibilità di applicare agli stessi una permanenza domiciliare e, talora, persino un collocamento in comunità, laddove non si riveli praticabile, con la conseguenza di un’inevitabile prolungamento della misura carceraria.
  2. E’ stato sottolineato dai più che, le diversità culturali e la fatica da parte degli stessi minori a comprendere la ratio degli istituti dettati a loro favore, hanno comportato per i minori stranieri delle ricadute negative sulla buona riuscita dei processi, atteso che, in alcuni casi, i validi percorsi rieducativi e di socializzazione, avviati nell’ambito del procedimento penale, hanno trovato ostacoli nella prosecuzione al di fuori del circuito penale, a causa delle difficoltà di integrazione nel contesto sociale ovvero per la perdita o mancanza dei presupposti per la permanenza regolare sul territorio italiano da maggiorenni.
  3. Le differenze culturali hanno spesso determinato anche delle oggettive difficoltà nella redazione dei progetti di M.A.P. in quanto, essendo ignorati gli aspetti culturali ed etnici, si è di frequente verificata la difficoltà di adattare i progetti alle caratteristiche personali del minore straniero. Una valida soluzione al problema è stata ravvisata nell’opportunità di garantire, puntualmente, un affiancamento reale e concreto del mediatore culturale nelle varie fasi processuali e, possibilmente, anche nella fase di redazione dei progetti di M.A.P., in quanto potrebbe fornire una lettura chiara e precisa delle notevoli differenze individuali, relazionali, familiari, culturali e linguistiche del minore straniero-autore di reato, in modo da garantire con maggiori probabilità un esito positivo dei percorsi rieducativi (M.A.P. compresa) e prevenire così eventuali recidive.
  4. Vengono, inoltre, segnalati casi nei quali l’approccio dei Pubblici Ministeri in fase di indagini risulta molto meno “tempestivo” nei confronti dei minori stranieri, come ad esempio nelle ipotesi di ritardi nelle richieste ai servizi del territorio e/o ai Carabinieri locali delle notizie attinenti al nucleo familiare, tanto vero che talvolta si è pervenuti al processo senza alcuna traccia di notizie in merito alla personalità del minorenne, al punto che si è resa indispensabile (al fine di non incorrere in possibili nullità) una richiesta integrativa specifica da parte del difensore o del medesimo organo giudicante.
  5. Si registrano, altresì, numeri decisamente più elevati di processi in contumacia a carico di minori stranieri, processi in rapporto ai quali la totale carenza di ogni indagine sociale è di gran lunga più elevata rispetto ai processi contumaciali celebrati nei confronti di imputati italiani.
  6. E’ stata opportunamente sottolineata, infine, la necessità di far sì che il minorenne straniero-autore di reato possa essere assistito da un difensore d’ufficio o di fiducia appositamente formato e specializzato, onde garantirgli l’effettività della difesa, così come è stata evidenziata l’opportunità di prevedere la nomina di interpreti che conoscano la lingua dello straniero e che possano far comprendere correttamente all’imputato ciò che avviene e, soprattutto, ciò che concerne la garanzia dei propri diritti.

2° QUESITO: Avete potuto verificare in concreto situazioni di tipo discriminatorio nei riguardi di indagati/imputati minorenni? E se sì, in quali ipotesi?

  1. Tutte le situazioni, segnalate in rapporto al primo quesito, sono da reputarsi oggettivamente discriminatorie e si ritiene, comunemente, che verrebbero notevolmente a ridursi laddove vi fosse una maggior cura, in tutte le fasi del procedimento, della comunicazione linguistica e, soprattutto, se si riuscisse a garantire adeguate risorse (personale apposito o operatori con formazione specifica) per attuare la mediazione culturale, reputata indefettibile per un’effettività dei diritti di uguaglianza.
  2. Particolarmente ricorrenti sono i casi di discriminazione, vissuta dagli indagati stranieri nei contatti con le forze dell’ordine con peculiare riguardo ai verbali di identificazione, elezione di domicilio, informazioni di garanzia, comunicazione della nomina del difensore di ufficio ecc., atti per lo più redatti in lingua italiana e senza un adeguato accertamento della effettiva capacità di comprensione della lingua da parte del minore.
  3. Di rilevante interesse si rivela, infine, l’indicazione fornita dalla C.M. di Reggio Calabria in rapporto al c.d. <<Progetto Carceri “I care, you care“>>, che persegue l’ambizioso obiettivo di rispondere all’esigenza di costruire una “filiera produttiva” di educazione, sostegno e reinserimento sociale, per minori che siano coinvolti a vario livello nel circuito penale, con una particolare attenzione per i minori stranieri non accompagnati, oltre che per quelle situazioni di disagio minorile derivante dalla difficile integrazione socio-culturale del ragazzo (come nelle ipotesi di difficoltà di integrazione delle etnie ROM). Si è rilevato, nello specifico, che sussiste una difficoltà strutturale del sistema, che – spezzettato in una molteplicità di funzioni ed enti di competenza e riferimento – non riesce a trasmettere adeguatamente una proposta valoriale ed un modello di vita diverso da quello di provenienza. Sicchè, rilevata la necessità di un attento lavoro di “messa in linea” delle risorse già esistenti e di supporto ed innovazione nella costruzione della “filiera” in questione, si è proposto di: a) dotarsi di un linguaggio comune fra gli operatori mediante attività di formazione specifiche, basate sul far “circuitare” le competenze e sulla condivisione di esperienze del “fare” dell’altro; b) creare strumenti specifici per aree di intervento, che rendano la “filiera” capace di essere “meccanismo sociale” comune e condivisibile tra utenti ed operatori ed, al contempo, capace di adattarsi ed adattare il suo operare alle specifiche necessità di ogni minore (banca dati su legislazione e prassi, implementata dalla raccolta sistematica di dati sociologici e culturali, che aiuti nella formulazione delle strategie di intervento, portando la conoscenza delle problematiche e dei modelli culturali, di apprendimento e di socializzazione di provenienza del minore); c) mettere in campo strumenti di valutazione e revisione/miglioramento costante del sistema, con la condivisione di prassi ed il monitoraggio della qualità dei singoli interventi; d) funzionalizzare sbocchi lavorativi e di reinserimento alla condivisa logica di “filiera”, dotando i soggetti attuatori di quegli strumenti pratici e di quelle attrezzature che dovessero risultare difettanti (si pensi alla figura del mediatore linguistico/culturale oppure alla potenzialità di inserimento in gruppi appartamento, strutture o famiglie ospitanti appositamente formati).