Il tribunale di Bologna, con sentenza del 06.07.2017, ha disposto l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983 a favore di due minori, nei confronti del partner omosessuale del genitore genetico.
I Giudici bolognesi, riprendendo l’orientamento fatto proprio dalla Suprema Corte con sentenza 12962/2016, enuncia il principio di diritto secondo cui “in virtù della clausola di salvaguardia di cui all’art. 1 comma 20 legge n. 76 del 2016, l’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 lett. D della legge 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso sesso”.
In presenza di una relazione affettiva tra due persone, legate da un medesimo progetto di vita, con le stesse aspirazioni, desideri, progetti per il futuro, il mero fattore “omoaffettività” non può costituire un ostacolo formale alla crescita di un minore.
In tema di separazione e divorzio, in caso di affidamento congiunto, è giustificato il collocamento presso il padre dei figli se questi manifestano disagio per la tendenza della madre a coinvolgere eccessivamente il suo nuovo partner nella loro vita. Ad affermarlo è la Cassazione cui si era rivolta la donna il cui comportamento, secondo gli esperti, contrastava con l’esigenza della prole di «elaborare il cambiamento nei tempi dovuti». Per la Corte, la valutazione di preferibilità del collocamento dei ragazzi è preclusa in sede di legittimità, ben potendo, dunque, l’interesse prioritario della prole non coincidere con la “maternal preference”.
La Corte di cassazione, con la sentenza 1° giugno 2017 n. 13880, rigetta l’eccezione di costituzionalità sollevata da un uomo dichiarato giudizialmente papà dopo aver rifiutato l’indagine genetica, rilevando che non vi è disparità di trattamento tra la facoltà concessa alla donna di abortire o comunque di restare anonima dopo il parto e l’assenza per l’uomo che non voglia essere riconosciuto padre di un diritto a non sottoporsi al test del Dna: “l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse”.
Con la decisione resa in data 22 giugno 2017 sul caso “Barnea e Caldararu c. Italia” la CEDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 Conv. (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Il ricorso alla CEDU è stato promosso dalla coppia di genitori della minore nonché dai suoi due fratelli e dalla sorella.
Nel caso di specie la figlia minore della coppia di ricorrenti era stata allontanata dal nucleo familiare all’età di 28 mesi, con decisione del 2009 da parte del Tribunale per i Minorenni che aveva disposto il collocamento della minore in comunità, e successivamente collocata in altra famiglia, in affidamento a scopo adottivo, a far data dal dicembre 2010.
La Corte d’Appello, adita dai genitori, nel mese di ottobre 2012 aveva però riformato la decisione del Tribunale per i Minorenni, ordinando il reinserimento della bambina nel nucleo familiare d’origine, e disponendo che fosse attuato a tal fine un programma per il riavvicinamento tra i genitori e la figlia allontanata.
Tuttavia, soltanto nel 2016 il Tribunale per i Minorenni aveva ordinato il rientro della minore in famiglia, decisione confermata dalla Corte d’Appello nel novembre dello stesso anno: e ciò, nonostante a causa del lungo periodo di tempo trascorso dalla minore lontana dalla famiglia biologica, la bambina avesse avuto gravi difficoltà psicologiche conseguenti al reinserimento.
I ricorrenti adiscono quindi la CEDU facendo valere la violazione dell’art. 8 Conv., perché, sebbene avessero ottenuto il reinserimento della bambina in famiglia, le ripercussioni psicologiche a carico della minore e le perduranti difficoltà di adattamento avevano reso palese come i legami familiari fossero stati ormai definitivamente deteriorati.
La Corte EDU accoglie il ricorso, e chiarisce che le conseguenze negative descritte sono da imputare alla condotta delle Autorità italiane, che hanno lasciato trascorrere anni prima di reinserire la minore senza predisporre un adeguato programma volto alla conservazione dei legami, ormai definitivamente compromessi.
Con l’ordinanza interlocutoria n. 15183 del 20 giugno 2017 la Corte di Cassazione, previa sospensione del procedimento, ha investito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione relativa all’interpretazione dell’art. 19 del Regolamento 2201/2003.
In particolare, con riferimento alla litispendenza internazionale, i giudici italiani hanno chiesto alla CGUE di specificare se il principio di litispendenza delineato dal regolamento Bruxelles II-bis abbia rilievo unicamente ai fini della determinazione del giudice competente oppure se il mancato rispetto del principio possa valere quale causa ostativa al riconoscimento della decisione, nel Paese i cui giudici siano stati aditi preventivamente, allorché la sentenza provenga dall’Autorità giurisdizionale straniera adita successivamente; e ciò, allorché il principio di litispendenza non sia stato rispettato pienamente.
Il dubbio interpretativo sollevato dalla Cassazione sorge perché l’art. 24 del Regolamento 2201/2003 in relazione al divieto di riesame della competenza giurisdizionale dell’Autorità giudiziaria d’origine fa riferimento solo agli artt. 3-14 del Regolamento stesso, ma non anche all’art. 19 dedicato, per l’appunto, alla litispendenza.
Nel caso di specie, in pendenza del giudizio di separazione introdotto dal marito in Italia, la moglie aveva ottenuto sentenza di divorzio dal Tribunale di Bucarest.
In Italia, la sentenza romena era stata riconosciuta sia con riferimento alla statuizione sullo status divorzile, sia con riferimento all’affidamento dei figli alla madre; la Corte d’appello italiana aveva confermato la correttezza del riconoscimento della sentenza straniera e della cessazione della materia del contendere per inammissibilità della domanda con riferimento alla richiesta paterna di affidamento dei figli a sé, per sopravvenuto giudicato della sentenza romena riconosciuta in Italia.
Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione intende domandare un chiarimento circa la portata del principio di litispendenza: se cioè lo stesso debba intendersi in senso stretto o se si possa privilegiare una sua interpretazione più ampia.
Una coppia di cittadine italiane aveva ottenuto all’estero (in Regno Unito) la rettificazione dell’atto di nascita di un bambino nato all’interno della coppia, a seguito di fecondazione assistita.
Il bambino, nato in Inghilterra, era stato registrato dall’Ufficiale dello stato civile di Kensington, inizialmente, come figlio di una sola delle due ricorrenti (la madre partoriente).
Sicché, il certificato di nascita così formato era stato trascritto anche in Italia, a Venezia.
Successivamente, però, l’Ufficiale dello stato civile di Kensington aveva modificato il certificato di nascita del minore, indicando la maternità sia con riferimento alla partoriente sia con riferimento all’altra donna, partner della madre partoriente.
La coppia di ricorrenti aveva quindi chiesto all’Ufficiale dello stato civile di Venezia di rettificare l’atto originariamente trascritto, accogliendo le modifiche già effettuate dall’Ufficiale dello stato civile inglese.
La richiesta era stata rifiutata per contrarietà all’ordine pubblico; il diniego era stato confermato anche dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Venezia, sempre sul presupposto della contrarietà all’ordine pubblico ex art. 16 l. 218/1995.
La Corte di Cassazione però ha accolto il ricorso della coppia, precisando che l’ordine pubblico in questione non può essere desunto solo dall’ordinamento interno, ma deve leggersi in una prospettiva internazionale, soprattutto allorché l’atto originario (certificato di nascita) sia stato prodotto e modificato, validamente, nell’ambito di un ordinamento giuridico straniero
Inoltre, i giudici di legittimità richiamano anche i consolidati principi internazionali riferiti al superiore interesse del minore, che nel caso di specie coincide con il diritto a conservare la relazione di genitorialità consolidata nei confronti delle due madri, e quelli riferiti al diritto alla vita familiare senza discriminazioni tra coppie di persone dello stesso sesso e di sesso diverso.
In definitiva, quindi, la Corte di Cassazione ha escluso l’applicazione automatica e stereotipata del principio di ordine pubblico, privilegiandone una lettura compatibile con l’interesse del minore e delle ricorrenti alla conservazione della relazione familiare.
Il padre di una minore ha chiesto al Tribunale di Roma la modifica delle condizioni della separazione consensuale, nella parte relativa all’affidamento della bambina.
La moglie costituendosi in giudizio ha eccepito il difetto di giurisdizione del Tribunale di Roma sul presupposto che la minore ormai da due anni viveva con lei negli Stati Uniti; il Tribunale di Roma ha respinto l’eccezione ritenendo che il giudizio di modifica si strutturasse come un’integrazione del procedimento di separazione rispetto al quale, anni prima, la moglie aveva già accettato la giurisdizione italiana.
La moglie ha dunque presentato alla Corte di Cassazione istanza per regolamento di giurisdizione.
I Giudici di legittimità chiariscono il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello americano.
Anzitutto, è stata affermata l’autonoma del giudizio di modifica delle condizioni di affidamento della minore rispetto al giudizio di separazione, in linea con quanto previsto dall’art. 12 del Regolamento 2201/2003.
In particolare, da tale norma è stata desunta l’importanza della giurisdizione di prossimità in tutte le decisioni relative all’affidamento dei figli minori: un principio che prevale rispetto a qualsiasi ipotesi di proroga della giurisdizione, anche qualora la stessa, in teoria, fosse stata volontariamente accettata.
L’applicazione del criterio di competenza giurisdizionale fondato sulla residenza abituale del minore è inoltre coerente con i principi di cui alla Convenzione de L’Aja del 1961 richiamata dall’art. 42 L. 218/1995, ritenuta applicabile al caso di specie.
Tale criterio persegue infatti lo scopo di garantire la continuità degli affetti affidandone la tutela al giudice ritenuto più idoneo sulla base del principio di prossimità agli interessi del minore.
Con sentenza n. 8802/2017 la Corte di Cassazione, pur ribadendo il principio già fatto proprio secondo cui il minore ha diritto a crescere nella propria famiglia di origine, ritiene tuttavia che detto diritto incontra un limite “se si accerta la ricorrenza di una situazione di abbandono che legittimi la dichiarazione di adottabilità qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico – fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l’unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva”.
Dunque, nell’ipotesi in cui fallisca qualsivoglia intervento di sostegno nei confronti della famiglia, deve essere riconosciuto l’interesse del minore ad ottenere, nell’ambiente più idoneo, un sano sviluppo sul piano psico – fisico, interesse che trascende e nei casi estremi comporta la recisione dei legami biologici, nonché il superamento delle relazioni affettive che non siano compatibili con un armonioso sviluppo psico-fisico del minore stesso.
Di importanza storica la sentenza n. 11504 emessa dalla Suprema Corte il 10.05.2017 con cui, dopo circa 27 anni, la Corte ribalta il proprio orientamento dichiarando che “non è configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.
Tenendo conto dell’evoluzione sociale della famiglia, deve ritenersi che il parametro del tenore di vita collide radicalmente con l’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: “un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile che producano l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo (cfr. Cass. n. 6289/2014) che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9)”.
Dunque il parametro di riferimento va individuato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto.
I principali indici che la Cassazione individua per valutare l’indipendenza economica di un ex coniuge sono il “possesso” di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le “capacità e possibilità effettive” di lavoro personale e “la stabile disponibilità” di un’abitazione.